7° episodio - rizzuti.it

Sito multilingua
Vai ai contenuti
<- menù

DOMINUS VOBISCUM



Passarono poche settimane da quell'incontro in Vescovado, quando Don Gennarino ebbe una gradita sorpresa, in occasione della giornata dedicata alla Cerimonia del Santo Patrono.
Don Gennarino si trovava in Cattedrale per coordinare tutte le attività legate a quell'importante evento, e in un primo momento non riconobbe quel bambino dall'abbigliamento sobrio, rigoroso e sopratutto pulito.
Era il piccolo Enzo, vestito da chierichetto, che con il turibolo in mano tributava al buon Dio l'omaggio propiziatore dell'incenso.
Il bambino sembrava sereno e tutto compreso nel suo compito, e stava vivendo una parentesi luminosa: la vastità delle navate, la ricchezza dei paramenti, la porpora e il turibolo d'argento rappresentavano l'effimero riscatto del destino di una povera famiglia. Un lampo di serenità nella tristezza di tutti i giorni.
Una mattina arrivò in ufficio, con aria cupa, il Maresciallo dei Carabinieri e disse a Don Gennarino che aveva bisogno di conferire urgentemente con Sua Eccellenza, venne quindi annunciato e ricevuto nel giro di pochi minuti.
Dopo l'incontro Don Gennarino fu convocato dal Vescovo, che gli disse:
“Lo sapevi di quella povera donna che vive nel dolore per la morte dell’unico figlio  ucciso nei pressi di Roma mentre faceva il suo dovere di Carabiniere? Sai dove abita? Possiamo andare a farle visita?”
Don Gennarino fece mente locale e subito dopo rispose:
“Ne ho sentito parlare e so dove abita.”
Allora Sua Eccellenza gli comunicò che poteva andare da lei nel pomeriggio.

Alle sedici in punto uscirono dal palazzo e si diressero verso l’abitazione della povera donna, entrarono nei vicoli bui del paese e infine bussarono alla sua porta.
Aprì sua nipote la quale disse che la zia viveva ormai in lutto da un anno e trascinava una vita inerte, sigillata nella memoria di un giorno doloroso ormai lontano e pur sempre vicino.
La povera madre viveva in una stanza dal pavimento sconnesso, sempre vestita di nero dalla testa ai pie­di, persa nella dolcezza perduta delle fotografie appese ai muri e sui vetri dell'ar­madio, accucciata su un "braciere", vicino a un letto fatto di tavole dure, sempre più pallida e senza età, consunta dal ricor­do del figlio morto.
 
La sua esistenza era solo una parvenza di vita in attesa della morte fisica, perché nell'anima era già da un anno che scontava la morte vivendo.
Sua Eccellenza la fece alzare dalla sedia, la abbracciò e tenendola stretta a sé si parlarono sottovoce. Infine nel volto della donna sì intravide una serenità improvvisa e il Monsignore si congedò da lei con una affettuosa esortazione:
 
”Abbi fede!”.
 
Così si licenziarono e tornando in Vescovado si notò subito che Sua Eccellenza era commosso e logorato da questa situazione.
 
Nei giorni successivi, altre volte andarono da quella donna, ormai erano diventati così legati che spesso in quei dialoghi arrivava il sorriso e nella sfortunata madre traspariva finalmente un briciolo di serenità oltre la rassegnazione.


Torna ai contenuti